Fallisce Cop 16 sulla biodiversità: niente soldi per la natura
Nonostante lo scorso decennio fosse dedicato alla “protezione della biodiversità”, abbiamo trattato talmente male la natura che il periodo 2011-2020 è stato il più distruttivo della storia umana. Dopo aver fallito tutti e 20 i target di Aichi (solo sei sono stati parzialmente raggiunti) stabiliti dalla Convenzione sulla diversità biologica (Convention on biological diversity, Cbd), l’Onu per correre ai ripari ha dedicato il decennio in corso “al ripristino degli ecosistemi”. Dalle ceneri di questo fallimento è dunque nato “l’accordo sulla biodiversità che proverà a fermare l’era dell’estinzione” durante la Cop 15 della Cbd del 2022. In estrema sintesi l’accordo prevede la protezione di almeno il 30% delle terre e dei mari entro il 2030, l’eliminazione ogni anno di 500 miliardi di dollari di sussidi dannosi all’ambiente, l’aumento della resilienza degli ecosistemi, riducendo al contempo di 10 volte il tasso di estinzione delle specie e incrementando l’abbondanza di quelle selvatiche; e l’istituzione di un fondo, il Global biodiversity framework fund (Gbff), per colmare il gap finanziario di 700 miliardi di dollari all’anno da impiegare per la tutela della biodiversità. Nel frattempo la devastazione ambientale è proseguita senza sosta, intensificandosi anziché riducendosi. Motivo per cui c’era grande attenzione per l’appuntamento della Cop 16 di Cali, in Colombia. Il summit da poco concluso, si è tenuto dal 21 ottobre al due novembre, non ha però prodotto i risultati sperati facendo registrare l’ennesimo empasse negoziale (qui il documento finale). È infatti saltato l’accordo su uno dei punti cruciali della Cop 16, cioè un primo passo per mobilitare 200 miliardi di dollari l’anno per sostenere iniziative legate all’attività di conservazione in tutto il mondo, raggiungendo uno step intermedio di 20 miliardi entro il 2025, come promesso dai Paesi sviluppati verso quelli più vulnerabili. Nulla di fatto anche sul Planning, monitoring, reporting, and review (Pmrr, il quadro di monitoraggio degli impegni presi dai singoli Paesi), solo 44 Paesi hanno presentato piani concreti per la tutela della biodiversità.
Sull’argomento si è così espresso il Wwf: “Nonostante la grave accelerazione della perdita di biodiversità a livello globale e le conseguenze disastrose del cambiamento climatico che ormai riempiono drammaticamente le cronache quotidiane, il mancato accordo della Cop 16 di Cali su come mettere a disposizione da parte degli Stati le risorse finanziarie per il Gbff allontana l’obiettivo di colmare il gap totale di 700 miliardi annui di finanziamenti necessari per arrestare e invertire la perdita di biodiversità entro il 2030 […]. Alla Cop 16 di nuove risorse per la biodiversità se ne sono viste ben poche. Solo un numero ristretto di Stati sviluppati ha annunciato nuovi contributi a favore del Global biodiversity framework fund (Gbff) che ora conta impegni per 407 milioni di dollari. Una goccia nell’oceano a fronte dei sette mila miliardi che annualmente sono indirizzati ad attività che aggravano il cambiamento climatico, la perdita di biodiversità e il degrado degli ecosistemi”.
Tra quel “numero ristretto di Stati” che hanno annunciato qualche forma d’impegno finanziario per la salvaguardia della biodiversità non c’è l’Italia. In generale, il mondo politico italiano, a braccetto con quello dell’informazione mainstream – per la maggioranza dei grandi media italiani la Cop 16 non sembra esserci stata -, segnala uno scarso interesse sulla tutela degli ecosistemi. Ciò è confermato dall’analisi sull’Agenda 2030 contenuta nel Rapporto ASviS pubblicato lo scorso 17 ottobre che evidenzia come il Goal 14 sugli ecosistemi marini e il Goal 15 sugli ecosistemi terrestri siano in costante peggioramento per via, per esempio, di un eccessivo sfruttamento delle risorse ittiche (al 73,7%) e per il ritmo incessante della cementificazione (il 7,14% del suolo italiano è impermeabilizzato). A questo si aggiunge la pessima gestione della risorsa idrica relativa al Goal 6, basti pensare che il 42,4% dell’acqua immessa nelle tubature non giunge nelle nostre case, viene sprecata. Inoltre, come rivela il rapporto Etifor supportato dall’ASviS, presentato durante la Cop 16, in Italia oltre 160 specie sono a rischio di estinzione. Un fattore che minaccia anche l’economia di tante aziende italiane che dipendono fortemente dai servizi ecosistemici (come acqua pulita, impollinazione e regolazione climatica).
“Purtroppo dobbiamo registrare che l’Italia, sui finanziamenti per la natura, fa peggio dei suoi partner G7: a Cali nessun impegno a favore del Gbff è stato annunciato dal Governo italiano, unico Paese G7 parte della Cbd a non aver ancora contribuito al Fondo”, ha proseguito il Wwf.
Ma qualche passo avanti c’è stato. Per esempio sull’equa condivisione dei benefici derivanti dall’utilizzo delle risorse genetiche legate alla biodiversità, e sui diritti delle popolazioni indigene. I delegati hanno raggiunto un primo consenso su un quadro multilaterale per la gestione dei benefici economici derivanti dai Dati delle sequenze genetiche (Dsi, Digital sequence information on genetic resources). La decisione prevede di istituire un “Fondo Cali”, uno strumento finanziario volto a incanalare i profitti generati dall’utilizzo commerciale delle risorse naturali verso la conservazione della biodiversità e a beneficio di Paesi in via di sviluppo, comunità indigene e popolazioni locali. A questo Fondo dovrebbero contribuire tutti i settori che traggono vantaggi dai Dsi, come le industrie farmaceutiche, quelle biotecnologiche e cosmetiche. L’obiettivo è redistribuire parte del valore economico che queste aziende ricavano dalla natura, creando un circuito virtuoso per combattere la perdita di biodiversità. Inoltre, la decisione ricorda che occorre garantire anche i benefici non monetari, tra cui la condivisione delle conoscenze, in modo da migliorare l’accesso delle popolazioni indigene alle tecnologie e ai dati. Per il resto, onde evitare una battuta d’arresto permanente (la Cop sulla biodiversità si svolge ogni due anni), è stato deciso di riprendere i negoziati nel 2025, durante un incontro intermedio previsto a Bangkok.
In sostanza, l’incapacità della comunità internazionale di mobilitare i fondi per le soluzioni basate sulla natura mette in discussione la reale volontà di contrastare le tante crisi ambientali, tra loro interconnesse. Per fare un esempio, le attività di conservazione e di ripristino della natura, oltre a ridurre il rischio di disastri come alluvioni e inondazioni, agiscono come serbatoi naturali di CO2 contribuendo sia all’attività di mitigazione e sia a quella dell’adattamento al riscaldamento globale.
L’insuccesso della Cop 16 segue le tragedie italiane, ed è in concomitanza della catastrofe climatica di Valencia. Sulla città spagnola in otto ore si è abbattuta una quantità di acqua che storicamente in quella zona viene registrata nel corso di un anno. Un evento che deve necessariamente portare a riflettere sulle tante misure da mettere in campo per la tutela dei territori, dalla banale – almeno nel concetto – pulizia dei tombini fino a opere più complesse, come la rinaturalizzazione dei fiumi, averli interrati amplifica il rischio idrogeologico per le città. Inoltre, è sempre più urgente sviluppare nuovi sistemi di allerta, la tempistica in questi casi può salvare la vita a migliaia di persone.
Ma sul tema dell’adattamento bisogna anche prendere coscienza di un fatto. Per questo genere di evento estremo non c’è una misura in grado di limitare più di tanto gli impatti. L’Ipcc stesso ci ricorda infatti che l’attività di adattamento ha dei limiti, e che più salgono le temperature e meno margine di manovra avremo. Per questo occorre il prima possibile tagliare in modo consistente le emissioni gas serra.
Questo però non sta avvenendo. L’ultima (ennesima) conferma arriva dall’Emission gap report (Link articolo Flavio) dell’Unep, il Programma delle Nazioni unite per l’ambiente. Il Rapporto ricorda che le emissioni gas serra continuano a registrare nuovi record, le promesse dagli Stati sul clima si sciolgono così come neve al Sole (l’immagine di copertina del Rapporto è emblematica). Per l’Unep è ancora tecnicamente fattibile raggiungere l’obiettivo 1.5°C (inteso come aumento medio della temperatura globale rispetto ai livelli preindustriali), ma non in questo modo, così andiamo spediti verso un aumento di 3.1°C.
Lo studio arriva, non a caso, poco prima dell’inizio dell’altra Cop, quella più famosa, sul clima, che si terrà a Baku, in Azerbaijan, dall’11 al 22 novembre. Anche qui le premesse non solo delle migliori. Il Paese ospitante ha infatti l’intenzione, tramite l’azienda fossile di Stato, la “Socar”, di espandere la sua produzione annuale di gas, passando dagli attuali 37 miliardi di metri cubi a 49 miliardi entro il 2033, raddoppiando l’esportazione di gas verso l’Unione europea. Tra l’altro, Presidente della Cop 29 sarà Mukhtar Babayev, oggi ministro dell’ambiente e delle risorse minerarie ma con un passato lungo ben 25 anni proprio in Socar.
Intanto, mentre scrivo, gli Stati uniti incoronano Trump presidente. Di Donald Trump sono ormai note le posizione antiscientifiche, le quali si sposano benissimo con i fatti. Per esempio, durante lo scorso mandato, l’amministrazione del tycoon, solo nei primi mesi, ha consentito alle compagnie l’esplorazione di nuovi giacimenti petroliferi al largo dell’Alaska, nel Pacifico, nel Golfo del Messico e nella regione atlantica, ha smantellato il Clean power plan (misura che intendeva limitare le emissioni di CO2 generate dalle centrali elettriche a carbone), e ha portato gli Stati uniti fuori dall’Accordo di Parigi. Per amore della verità, occorre ricordare che nessun presidente a stelle e strisce ha mai voluto mettere la parola fine ai combustibili fossili, basti pensare che sotto l’amministrazione Biden gli Usa sono tornati a essere esportatori netti di combustibili fossili, coprendo parte della domanda europea, prima rivolta al gas russo, grazie a navi cariche di Gnl (Gas naturale liquefatto).
Premesso che ogni popolo ha il diritto di scegliere chi lo governa, l’elezione di Trump solleva dubbi sul futuro della transizione ecologica. Il clima non sfonda, o almeno non è il motivo che spinge i cittadini ad andare al voto, e i politici lo sanno. Anche perché la transizione è spesso vista dalle persone più come un pericolo che come un’opportunità, una paura su cui soffia forte il vento della disinformazione, del greenwashing, della propaganda. In questo contesto si innesta l’economia liberista che accentra sempre più ricchezze nelle mani di poche persone, tagliando così futuro e opportunità al resto della popolazione. Far comprendere che è proprio grazie alle politiche legate allo sviluppo sostenibile che possiamo fare leva sulla redistribuzione della ricchezza, combattendo le disuguaglianze anche attraverso una reale trasformazione del sistema economico, rappresenta la sfida ultima della battaglia ambientale. Una sfida da vincere.