Per evitare future pandemie occorre tutelare il benessere animale
“Potremmo essere tentati di pensare che la pandemia di Covid-19 sia ormai storia. Ma la storia ci insegna che il Covid-19 non sarà l’ultima pandemia. La domanda che tutti dobbiamo affrontare è se saremo pronti quando arriverà la prossima. In qualità di leader, abbiamo la responsabilità collettiva di assicurarci di essere pronti”. Con queste parole il direttore generale dell’Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus, è intervenuto alla riunione di alto livello dell’Onu su prevenzione, preparazione e risposta alle pandemie del 20 settembre, durante il quale è stata adottata una dichiarazione politica per affrontare le future crisi pandemiche.
Quando facciamo riferimento alla pandemia di Sars-Cov-2, virus responsabile della malattia Covid-19, dobbiamo ricordare che non si è trattato di un fenomeno del tutto inaspettato. La comunità scientifica ci aveva avvisato sullo stretto legame che esiste tra insorgenza di nuove malattie e la distruzione della natura, ma non le abbiamo dato e ascolto e, a di stanza di qualche anno, possiamo dire che l’atteggiamento nel post-pandemia non è poi così diverso da quello pre-pandemia.
L’attività antropica continua infatti a invadere gli ecosistemi e a distruggere i preziosi equilibri tra esseri umani e natura che si sono generati nel corso dei millenni, basti pensare che oggi i tre quarti delle terre emerse e i due terzi degli oceani sono stati modificati in modo significativo. Di questo passo, il futuro potrebbe essere segnato da nuove malattie infettive che, va ricordato, non solo minacciano la salute umana, ma contribuiscono ad accelerare il tasso di estinzione naturale delle specie e hanno pesanti ricadute sulla conservazione della biodiversità.
Pandemmie, malattie infettive: il 75% sono zoonosi
Le ultime epidemie sul Pianeta hanno più o meno avuto la stessa origine: si parte da mercati “umidi” – di animali, anche selvatici – di grandi metropoli, diffusi soprattutto in Africa e Asia, o da pratiche di allevamenti intensivi che troviamo un po’ in tutto il mondo. Si tratta di luoghi in cui si crea l’occasione perfetta per lo spillover, parola che indica il salto di specie animale-uomo compiuto da un virus.
Secondo lo studio “Wildmeat consumption and zoonotic spillover: contextualising disease emergence and policy responses”, pubblicato su Science direct lo scorso anno, il 75% di tutte le malattie infettive emergenti provengono da “zoonosi”, cioè da animali, e in particolare da quelli selvatici (circa il 70%): “si stima che circa il 75% delle malattie infettive emergenti siano di origine zoonotica (o abbiano vie di trasmissione che coinvolgono animali), con animali nel commercio di fauna selvatica che ospitano circa tre quarti di tutti i virus zoonotici conosciuti e le malattie associate (non tutte dannose per l’essere umano)”.
Tra le cause della diffusione di nuovi virus c’è la crescente domanda globale di proteine animali. Lo studio “Surveillance of european domestic pig populations identifies an emerging reservoir of potentially zoonotic swine influenza a viruses”, pubblicato da National library of medicine, che ha analizzato più della metà dei 2.500 allevamenti intensivi di suini sparsi in tutta Europa, ha confermato la persistente presenza dei principali ceppi del virus dell’influenza suina “A” evidenziando il fatto che, in questo tipo di allevamenti, esiste la possibilità di innescare il processo di spillover.
L’esplosione di nuovi fenomeni epidemici o pandemici si collega poi alla deforestazione. Per “The infectious disease trap of animal agriculture”, lavoro di ricerca pubblicato su Science advances, resta il disboscamento per via dell’accaparramento da parte del settore agricolo il primo passo che innesca il “salto di specie”. “La gestione intensiva spesso confina gli animali e i loro escrementi, il che favorisce anche l’insorgenza di malattie. Pertanto, la crescente domanda di alimenti di origine animale crea una ‘trappola’ del rischio di malattie zoonotiche: l’uso estensivo del territorio da un lato o la gestione intensiva degli animali dall’altro. Non tutte le intensificazioni comportano rischi di malattie; alcuni metodi evitano il confinamento e migliorano la salute degli animali. Tuttavia, questi miglioramenti ‘win-win’ da soli non possono soddisfare la crescente domanda di carne, in particolare di pollo e maiale”, si legge nello studio che poi avverte sul consumo di carni bianche, meno impattanti sul clima ma più rischiose sulla diffusione di nuovi virus: “la produzione intensiva di pollame e suini comporta un maggiore utilizzo di antibiotici, confinamento e popolazioni animali rispetto alla produzione di carne bovina. Il passaggio dal consumo di carne bovina a quello di pollo mitiga le emissioni climatiche, ma questa strategia comune trascura i rischi di malattie zoonotiche. La prevenzione delle malattie zoonotiche richiede un coordinamento internazionale per ridurre l’elevata domanda di alimenti di origine animale, migliorare la governance della conservazione delle foreste e intensificare selettivamente i sistemi di ruminanti a bassa produzione senza confinamento”. In sostanza: maggiore è il numero di animali d’allevamento, maggiore è il rischio di epidemie zoonotiche e, anche per questo, occorre ridurre il consumo globale di carne.
L’unica strada percorribile: quella del One health
Dalla fine del 2021, gli Stati membri dell’Organizzazione mondiale della sanità si sono riuniti per elaborare un trattato globale di lotta, ma soprattutto di prevenzione, alle future pandemie. Al momento, sembra che la nascita di un accordo sul tema non arriverà prima del prossimo anno. Di sicuro, per essere efficace, questo trattato deve mettere al centro la salute di tutte le specie: senza il riconoscimento del “benessere animale” e vegetale non si potranno garantire condizioni di buona salute per le persone che abitano il pianeta. Per questo, come sottolineato nella dichiarazione Onu scaturita dalla riunione sulle pandemie, appare fondamentale garantire un approccio in tutte le politiche che sia coerente con il concetto di One health.
“Negli ultimi anni si è sempre più affermato il concetto di One health, secondo cui non ci sono solo individui e comunità. La specie umana non è l’unica che ha bisogno di essere preservata: la salute del pianeta e di tutti i suoi abitanti devono avere pari dignità se si vuole creare un ecosistema che sia sostenibile, resiliente e durevole. In altre parole, siamo tutti componenti di un unico sistema, in cui la salute di ogni parte – umana, animale o ambientale – è strettamente dipendente da quella di tutte le altre”, si legge nello studio “Salute globale e determinanti sociali, ambientali, economici” dell’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (ASviS) sul tema, “l’approccio One Health ha come pilastri l’intersettorialità, l’interdisciplinarietà e la partecipazione della società civile”.
Infine, oltre a garantire l’approccio One health, il trattato in discussione dovrebbe individuare e regolamentare le attività pericolose che generano epidemie e pandemia promuovendo, al contempo, la cultura del principio di precauzione e dedicando gli investimenti necessari ad aiutare le comunità colpite dall’abbandono di determinate attività.
Articolo pubblicato su asvis.it
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