Economia malata: la cura sbagliata dei dazi

dazi e crisi economia

 

L’introduzione dei dazi da parte dell’amministrazione Trump, ora sospesi per buona parte del mondo tranne che per la Cina, appare come l’ennesimo tentativo di spostare l’attenzione dalle responsabilità interne dei singoli Paesi. Limitarsi a leggere l’imposizione dei dazi come una semplice misura economica significa, dunque, non cogliere la portata reale del problema.

Le tariffe doganali sono infatti l’espressione concreta di un modello economico in crisi, incapace di autoriformarsi e sempre più segnato da disuguaglianze crescenti, polarizzazione sociale e concentrazione del potere economico. I dazi, in questo contesto, non sono che la manifestazione visibile di una crisi sistemica del modello neoliberista che, pur mostrando segni evidenti di logoramento, continua a riformularsi cercando capri espiatori su cui scaricare le proprie contraddizioni. Donald Trump non ha inventato questa dinamica, ha semplicemente accelerato processi già in atto, mostrando però che la dimensione politica può ancora influenzare le sorti dell’economia globale.

I dazi rivolti alla Cina rispondono poi a un disegno strategico più ampio, e di tipo conservativo: contenere l’ascesa di Pechino e mantenere l’egemonia statunitense sul piano globale. Un equilibrio costruito anche attraverso la realizzazione di standard economici funzionali. È il caso del Prodotto interno lordo (Pil) adottato come indicatore universale dello sviluppo dopo che, nel 1944, il governo USA scelse per l’approccio basato sulla quantità della produzione a discapito di uno più attento al consumo e al benessere. Quella decisione, consolidata a Bretton Woods e istituzionalizzata nel corso del tempo attraverso le Nazioni unite, il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale, ha plasmato per decenni la nostra idea di crescita economica.

In questo scenario caratterizzato da tensioni geopolitiche, crisi ambientali, trasformazione tecnologica aumento delle disguaglianze, emergono dunque con forza i limiti strutturali della teoria economica dominante.

Il tema della “rinascita economica” è il fulcro della riflessione presente nell’articolo scritto dagli economisti Leonardo Becchetti e Jeffrey Sachs, e pubblicato sulle colonne di Avvenire. La proposta avanzata è quella di ricostruire l’economia a partire da sei principi fondamentali. Il primo è un approccio sistemico e interdisciplinare, capace di integrare le dimensioni economiche con quelle naturali, tecnologiche, culturali e politiche. Il secondo principio richiama l’importanza di riconoscere e rispettare la diversità storica, culturale e biofisica delle società e dei territori. Tra le proposte è presente anche il “superamento dell’homo economicus”, sostituito da una visione dell’essere umano come soggetto relazionale, sociale e cooperativo. Fondamentale è poi la valorizzazione dell’azione collettiva, attraverso una governance multilivello ispirata al principio di sussidiarietà. Altro pilastro è la centralità del benessere umano, da misurare con metriche nuove e più aderenti al bene comune, superando il culto del Pil. Infine, viene proposta la costruzione di un dialogo etico globale, radicato nelle diverse tradizioni culturali del mondo, capace di orientare le scelte economiche verso una responsabilità condivisa.

Con questo appello, che si rifà al manifesto per la rinascita economica firmato da 350 economisti lo scorso anno a Perugia, il mondo della ricerca invita a una trasformazione radicale della disciplina economica quale strumento critico e propositivo per affrontare le sfide del nostro tempo. Una nuova economia è possibile, ma solo se saprà riconoscere i propri limiti e aprirsi al cambiamento.

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