Inquinamento e clima pregiudicano olimpiadi e valori nello sport

Si gareggia, forse no, meglio posticipare, cambio location. La Senna è inquinata, la Senna è pulita. Nonostante i dubbi legati al buono stato delle acque, con il triathlon del 31 luglio sono iniziate le gare olimpiche che hanno come sede il fiume parigino. L’efficacia dell’investimento di 1,4 miliardi di euro, soldi serviti per creare impianti di depurazione lungo tutto il corso del fiume, è però ancora oggetto di acceso dibattito soprattutto in rapporto a una serie di fattori di carattere ambientale. A regimi normali, spiegano infatti gli esperti, grazie alle nuove misure di sicurezza i livelli di inquinamento sembrano essere sotto controllo e al di sotto dei limiti di legge, ma se piove, come tra l’altro avvenuto nei primi giorni di questa olimpiade, tutto può cambiare. Il problema maggiore che affligge la Senna, non balneabile da oltre 100 anni, sono le acque reflue – cioè quelle contaminate a seguito di attività umana – che finiscono in un fiume lungo quasi 800 chilometri (776,6 Km). In sostanza, quando piove, la portata delle acque che finisce nella Senna aumenta a tal punto da rendere vana l’azione degli impianti di depurazione, non più in grado di evitare che una grossa quantità di inquinanti finisca nel fiume. Ed è così che in questi giorni gli atleti, oltre a misurarsi tra di loro, devono fare i conti con il batterio dell’escherichia coli, responsabile di malattie gastrointestinali che vanno dal vomito alla diarrea, e con altri inquinanti chimici che possono portare a irritazione della pelle e quant’altro. Nei prossimi giorni capiremo se l’organizzazione insisterà sulla Senna o sarà costretta a cambiare piani.
Ma non c’è solo il fiume nei pensieri degli atleti in gara. Secondo l’agenzia meteorologica nazionale della Francia, dopo le piogge dei primi giorni, Parigi e le aree circostanti stanno andando incontro a un’ondata di calore che potrebbe far schizzare le temperature fino ai 37°C. Ricordiamo che per l’Agenzia europea per l’ambiente saranno proprio le ondate di calore la principale minaccia per la salute umana nei prossimi anni nel vecchio Continente (solo nell’estate del 2022 hanno provocato la morte prematura di 60mila/70mila europei). Dal 1924, anno in cui Parigi ospitò le sue ultime olimpiadi, le temperature medie annuali nella capitale francese si sono alzate di 1.8°C, mentre ci sono 23 giorni “caldi” in più (+25°C) e nove giorni “roventi” in più (+30°C) in media ogni anno. Un problema che impatta anche indirettamente sulla condizione degli sportivi, basti pensare che la siccità e le temperature estreme rendono le superfici di gioco più dure e fragili, aumentando il rischio di infortuni. Inoltre, le ondate di calore comportano la riprogrammazione degli eventi sportivi, interrompendo la preparazione e le prestazioni degli atleti.
Secondo un sondaggio rilanciato dal sito della Convenzione Onu sulla lotta alla desertificazione “il 75% degli atleti percepisce un impatto negativo sulla propria salute e sulle proprie prestazioni a causa del cambiamento climatico. Inoltre il riscaldamento globale riduce le opportunità per le attività comunitarie e giovanili, colpendo in particolare i gruppi emarginati”.
Si tratta di condizioni estreme già sperimentate in passato. Durante le olimpiadi di Tokyo 2021, i giochi hanno visto le temperature salire sopra i 30°C, accompagnate da un elevato tasso di umidità. Il risultato è stato che eventi come la maratona e la marcia sono stati spostati alle prime ore del mattino per mitigare i rischi di calore. “I concorrenti hanno vomitato e sono svenuti al traguardo, sono state utilizzate sedie a rotelle per trasportare gli atleti lontano dagli stadi bruciati dal Sole e la paura di morire in campo è stata sollevata a metà partita persino dal tennista numero due al mondo durante le olimpiadi Tokyo, Daniil Medvedev“, si legge nello studio “Rings of fire: heat risks at the 2024 Paris olympics” che, facendo il punto della situazione, avverte: “se il Pianeta continua a riscaldarsi, lo sport come lo conosciamo e amiamo è a rischio”.
Un problema che tocca da vicino anche i giochi invernali dato che la crisi climatica sta facendo aumentare la produzione di neve artificiale, sollevando preoccupazioni sulla qualità della neve e sulla sicurezza delle piste. Le olimpiadi invernali di PyeongChang (2018) e Sochi (2014) hanno utilizzato tra l’80% e il 90% di neve artificiale, mentre il 100% della neve su cui hanno gareggiato gli atleti alle olimpiadi invernali di Pechino del 2022 era artificiale. Un’incognita neve che ora preoccupa l’Italia. Il nostro Paese, dove continua il trend negativo delle precipitazioni nevose che obbliga i grandi impianti sciistici a rimanere aperti a singhiozzo, sarà infatti la sede che ospiterà con “Milano-Cortina 2026” i prossimi giochi invernali. Ma oltre a sollevare grosse questioni di carattere ambientale, legate anche all’effettiva sostenibilità relativa all’organizzazione di queste manifestazioni, la crisi climatica rischia di privarci anche di atleti di un certo livello. “Entro il 2030 il 20% delle nazioni olimpiche rischia di sparire a causa dell’impatto dei cambiamenti climatici sullo sport” ha dichiarato Julie Duffus (senior manager per la sostenibilità del Comitato olimpico internazionale). Un caso emblematico è quello del Kenya, da sempre la nazione regina nelle maratone.
“Uno degli atleti più attesi alle olimpiadi di Parigi è il maratoneta del Kenya Eliud Kipchoge, vincitore di due medaglie d’oro nelle ultime due edizioni e a caccia di uno storico terzo successo, impresa mai riuscita a nessuno. Kipchoge viene da Kapsisiywa, un piccolo villaggio nella parte occidentale del Kenya. Da quella zona sono arrivati tantissimi campioni e campionesse della corsa, tra cui quattordici vincitori della maratona di Boston e tredici medaglie d’oro ai campionati mondiali di atletica leggera. Questo angolo del Kenya viene chiamato, di fatti, la casa dei campioni. Le sue strade dritte, senza ostacoli e in altura permettono agli atleti di sviluppare capacità polmonari e di corsa uniche. Tuttavia, questa è anche una zona dove il 35% delle persone vive sotto la soglia della povertà e negli ultimi anni è stata colpita violentemente dal caldo e dalla siccità così come da violente inondazioni e dalla perdita di biodiversità”, si legge sul sito di Lifegate.
Intanto mezza Italia si trova a fronteggiare un’emergenza idrica che, anno dopo anno, diventa sempre più una difficile normalità con cui fare i conti. In Sicilia le città di Palermo e Trapani hanno avviato attività per ridurre il consumo di acqua, mentre nella provincia di Agrigento la marina militare è dovuta intervenire con le proprie navi cisterna. Difficile la situazione anche in Sardegna e in Puglia, dove ci sono zone che non vedono una goccia d’acqua addirittura da nove mesi, e in Calabria, dove è stato dichiarato lo stato di emergenza regionale. Una situazione frutto di un concorso di colpe tra crisi climatica, il 22 luglio abbiamo vissuto il giorno più caldo mai registrato sul Pianeta – ma le cose potrebbero essere già cambiate nel momento in cui leggete questo articolo -, e gestione delle risorse presenti sul territorio. Su quest’ultimo punto, basti pensare che l’efficienza delle reti rappresenta una delle tematiche più critiche a livello nazionale: la dispersione delle reti idriche si attesta al 42,4%, una media nazionale che continua a salire negli ultimi anni secondo i dati Istat (nel 2018 era al 42%, e nel 2015 al 41,4%) riportati dal Rapporto ASviS 2023. Insomma, una quota enorme di risorsa idrica sprecata proprio nel momento in cui l’aumento delle temperature continua a ridurre la disponibilità di acqua dolce.
E di risorse si parla proprio mentre scrivo, il primo agosto, per via dell’Overshoot day 2024, giorno in cui il nostro Pianeta termina le risorse che mette a disposizione per l’umanità nel giro di trecentosessantacinque giorni. È in pratica la data che segna l’inizio della fine. Un trend spietato di una fame che, iniziata negli anni ’70, è cresciuta a dismisura. Prima del 1970 non c’era infatti alcun giorno dell’Overshoot. La popolazione mondiale riusciva ad alimentarsi – da un punto di vista sì culinario ma anche energetico, di utilizzo di materie prime necessarie al comparto economico e di assorbimento dei rifiuti prodotti – grazie all’uso delle risorse generate dai nostri ecosistemi. In pratica, la quantità di capitale naturale prodotta dai servizi ecosistemici bastava a sostenere gli stili di vita imposti dall’uomo. Oggi non è più così: come vivremo, quindi, da qui al 31 dicembre 2024? In debito ecologico: andando cioè a svuotare quegli “stock” naturali accumulati nel corso del tempo e privando di preziose risorse le generazioni future.
Il calcolo di questa “impronta ecologica” viene fatto ogni anno dal Global footprint network (Gfn), organizzazione che in base ai consumi, agli sprechi, alle emissioni gas serra in atmosfera (è il parametro che incide maggiormente), alla degradazione del terreno e a tutti gli altri fattori che incidono sullo stress degli ecosistemi, ci informa sul reale stato di salute del Pianeta.
Secondo il Gfn, per soddisfare l’intera e attuale domanda mondiale di risorse servirebbero 1,75 Terre. Un dato medio basato sia sugli stili di vita delle nazioni ricche, sia su quelle che ancora devono sperimentare gli effetti della crescita economica. Dall’analisi si evince che molte nazioni povere risultano avere un consumo di risorse nei limiti di sostenibilità, le nazioni ricche sforano invece di gran lunga il budget a disposizione. Sulla base dell’impronta ecologica sono gli Stati Uniti a essere la nazione meno sostenibile al mondo: se tutti volessimo vivere come la nazione a stelle e strisce servirebbero addirittura 5 Pianeti. Al secondo posto della classifica dei Paesi con la peggiore impronta ecologica spicca l’Australia con 4,7 Terre, seguita dalla Russia (3,8), dalla Francia (3,3) e dalla Germania (3,0). L’Italia, seppur lontana dai consumi d’oltreoceano, rimane in una condizione di forte insostenibilità: è ottava in classifica con uno stile di vita che, se fosse attuato dall’intera popolazione mondiale, richiederebbe 2,9 Pianeti per sostenersi.
I Paesi industrializzati continuano dunque a far segnare valori record, da medaglia d’oro. Peccato si tratti di una competizione che prevede solo sconfitti, dove lo spirito olimpico dell’inclusione e della solidarietà risulta completamente assente.
articolo pubblicato su asvis.it