Disuguaglianza e inazione climatica: il rischio di una transizione fatta per l’1%

In un sistema economico allo sbando la crisi della disuguaglianza globale ha raggiunto livelli estremi, con l’1% più ricco della popolazione mondiale che possiede più risorse del resto del Pianeta. Come ricorda Oxfam, nel 2024 la ricchezza dei miliardari è cresciuta di 2 mila miliardi di dollari, un ritmo triplo rispetto all’anno precedente. Oggi, il 45% della ricchezza globale è concentrato nelle mani di una ristretta élite, mentre 3,5 miliardi di persone sopravvivono con meno di 6,85 dollari al giorno, una percentuale di poveri rimasta invariata dal 1990.
È all’interno di questo contesto che la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, si appresta il 26 febbraio a svelare il Clean Industrial Deal, un pacchetto di politiche che dovrebbe seguire le linee guida della Dichiarazione di Anversa. Questo documento, sostenuto da oltre mille delle più influenti aziende di Europa e Stati Uniti, insieme alle principali associazioni imprenditoriali, propone una radicale trasformazione della politica industriale dell’Unione europea. Tra i suoi pilastri fondamentali troviamo un maggiore accesso al capitale per le imprese e una riforma normativa che favorisca la competitività del settore privato, andando così incontro alle richieste del mondo industriale fermo nel ripetere che il finanziamento pubblico è essenziale per supportare le aziende nella loro transizione energetica.
Tuttavia, una maggiore liquidità potrebbe non indirizzare le grandi aziende sulla strada che porta verso la sostenibilità. Anche perché non è di questa mancanza che hanno “sofferto” fino a ora. La cosa emerge con forza da un’indagine condotta dall’Ong olandese Somo in collaborazione con Friends of the Earth Europe, la quale rivela come le principali imprese europee impegnate nella transizione energetica abbiano già un accesso significativo al capitale. Il problema non è dunque la mancanza di risorse finanziarie ma il loro utilizzo: invece di investire in innovazione e sostenibilità, molte aziende destinano ingenti somme alla remunerazione degli azionisti.
L’analisi dei dati finanziari di 841 aziende quotate in borsa nei settori chiave della transizione energetica – come petrolio e gas, acciaierie, produzione di automobili, fornitori di energia elettrica, ecc…-, nel periodo di 13 anni esaminato (dal 2010 al 2023), evidenzia infatti una chiara priorità: il profitto degli azionisti. Con vendite complessive pari a 49,4 mila miliardi di euro e un utile netto di 2,1 mila miliardi di euro, queste aziende hanno distribuito 1,6 mila miliardi di euro ai propri azionisti, corrispondenti al 75,3% dei profitti. E dal 2015, anno dell’Accordo di Parigi, la tendenza si è addirittura accentuata: gli utili netti complessivi hanno raggiunto 1,4 mila miliardi di euro, con 1,1 mila miliardi di euro redistribuiti sotto forma di dividendi e riacquisto di azioni (la pratica del buyback).
Se poi si analizzano alcuni giganti del settore, l’allocazione delle risorse risulta ancora più preoccupante: Shell ha distribuito il 97% dei propri utili netti agli azionisti, TotalEnergies l’86%, Mercedes-Benz Group il 40% e Stellantis il 30%. Altre aziende fossili come Eni (123%), Glencore (156%) e BP (356%), hanno addirittura pagato dividendi superiori ai loro utili netti (il profitto di un’azienda dopo aver sottratto tutti i costi operativi, tasse comprese). In generale, i tassi di investimento delle aziende analizzate sono diminuiti drasticamente dal 18,4% nel 2010 al 14,9% nel 2023. La governance aziendale degli ultimi 40 anni ha inoltre ridotto progressivamente gli investimenti destinati a salari e infrastrutture.
Affidarsi esclusivamente ai fondi pubblici per ridurre il rischio degli investimenti privati, come sottolineato dal Rapporto Draghi, non solo è inefficace, ma perpetua un modello economico che premia la rendita anziché l’innovazione, e alimenta il circolo vizioso dell’economia dell’1%. Le grandi compagnie, responsabili per decenni dell’inazione climatica, non possono dunque continuare a beneficiare di risorse pubbliche senza condizioni stringenti e obiettivi chiari.
L’UE ha l’opportunità di ridefinire la propria politica industriale, orientandola verso investimenti realmente trasformativi. Sostenere le industrie decarbonizzate, vincolare i finanziamenti pubblici a risultati concreti e ritenere gli inquinatori responsabili del loro impatto ambientale sono passi essenziali per costruire un’economia resiliente e inclusiva. Solo così sarà possibile evitare che la transizione si trasformi nell’ennesima occasione per privatizzare i profitti e socializzare le perdite. Il sistema economico va modificato profondamente, servono regole chiare per allocare le risorse pubbliche e per scongiurare che finiscano di nuovo nelle solite mani. Non ci sarà nessun tipo di giustizia senza politiche di redistribuzione della ricchezza. Men che meno quella climatica.
Una risposta
[…] agli investimenti strategici per l’innovazione e la decarbonizzazione. Lo dimostra un’indagine dell’Ong olandese Somo, condotta con Friends of the Earth Europe, che evidenzia come le […]