Referendum trivelle: cosa c’è di vero

Si avvicina il referendum del 17 aprile* e la guerra mediatica è iniziata. Negli ultimi giorni i sostenitori del NO si sono mobilitati e gli argomenti maggiormente utilizzati sono due: il fabbisogno energetico nazionale e i posti di lavoro. Cerchiamo di analizzarli con chiarezza.

Non c’è collegamento diretto tra attività estrattive e fabbisogno energetico. Le multinazionali che chiedono allo Stato il permesso per l’estrazione di idrocarburi (gas e petrolio) lo fanno esclusivamente per i propri interessi economici. Il permesso a trivellare che viene fornito alle aziende dallo Stato è definito “concessione mineraria“. Con la concessione mineraria tutto quello che viene estratto è di proprietà di chi lo estrae, l’azienda è tenuta solamente a corrispondere allo Stato una “royalty” pari al 10% del valore degli idrocarburi estratti se l’attività riguarda la terraferma e al 7% del petrolio e al 10% del gas estratti se l’attività riguarda il mare (oggetto del referendum). Inoltre, lo Stato ci guadagna poco con le nostre royalty: sono tra le più basse al mondo.

Per quanto riguarda la questione occupazione: nessun posto di lavoro sarà perso il giorno dopo il referendum. Infatti, se dovesse vincere il SI, le concessioni non saranno rinnovate ma sarà comunque rispettata la loro naturale scadenza, quella cioè stabilita durante la stipulazione del contratto. In questo discorso, da non trascurare è il dato sulle risorse di idrocarburi presenti nei primi km delle nostre coste. Risorse che risultano essere scarse e che, quindi, renderebbero il “problema occupazione” solo posticipato di qualche anno (stiamo parlando di una quantità di petrolio che soddisferebbe, secondo alcuni calcoli, 7 settimane e di quantità di gas che soddisferebbero 6 mesi del nostro fabbisogno energetico).
Quando si tratta di un argomento così delicato e sentito dall’opinione pubblica, è bene mettere i posti di lavoro persi il relazione a quelli guadagnati. Dire SI al referendum vuol dire indicare la strada energetica sostenibile, vuol dire esprimere la volontà di investire in energie rinnovabili ed efficientamento energetico che può portare fino a 10 volte i posti di lavoro creati dal settore fossile, secondo lo studio condotto dal centro per la ricerca energetica inglese (Ukerc, UK Energy Research Centre).
Sulla bilancia è opportuno mettere anche i posti di lavoro che andrebbero persi con la presenza di una piattaforma offshore. Secondo le regioni promotrici del referendum, tra cui Basilicata, Puglia, Liguria, Marche, Sardegna e Veneto, le trivelle recano danni, oltre che sul piano ambientale, anche su quello economico: scoraggiano chi ha voglia di fare turismo e puntare al benessere e alla bellezza del paesaggio. Soffermandoci ancora sull’aspetto economico, dovrebbe far pensare il fatto che la Basilicata, di gran lunga la regione con più riserve di petrolio in Italia e forse d’Europa, sia una regione no triv.
Importante è anche sottolineare che il settore fossile, negli ultimi tempi, attraversa una crisi sul piano degli investimenti. Crisi dovuta soprattutto al prezzo del petrolio che oscilla tra i 30 e i 40$ al barile. Questo prezzo scoraggia gli investimenti per un semplice motivo: i costi di estrazione risultano superiori ai ricavi, come dimostrano tante rinunce alle trivellazioni da parte dei colossi petroliferi, e rendono l’investimento economicamente proibitivo.

“Questo referendum non può e non deve essere preso come pretesto per occultare le mancanze di governi presenti e passati. Se manca una politica industriale unita a clima ed energia non è certo colpa del referendum del 17 aprile”, dice in sostanza il Coordinamento Nazionale NO TRIV.

Altro aspetto da non sottovalutare è quello relativo all’impatto ambientale. Nel nuovo rapporto di Greenpeace “Trivelle fuorilegge”, per la prima volta vengono messi in risalto i dati relativi all’inquinamento generato dalle trivelle operanti nei nostri mari. I dati, forniti dal Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, evidenziano come le piattaforme offshore incidano negativamente sull’ambiente e sugli esseri viventi. Nel 70% dei casi analizzati, le sostanze chimiche pericolose, rilasciate dagli impianti petroliferi, sono al di sopra dei limiti di legge consentiti e molte di queste sostanze sono in grado di risalire la catena alimentare fino a raggiungere le nostre tavole.

Infine, con le ultime notizie non proprio rassicuranti sul fronte temperature (febbraio è stato molto più caldo di quello che ci aspettavamo), il referendum oltre ad essere un’eccellente strumento di democrazia, può essere anche una buona occasione per ricordare l’impegno che abbiamo preso a Parigi sulla mitigazione ai cambiamenti climatici.

(* Al referendum del 17 aprile si chiede agli italiani se vogliono abrogare la parte di una legge che permette a chi ha ottenuto concessioni per estrarre gas o petrolio da piattaforme offshore (in mare) entro 12 miglia dalla costa di rinnovare la concessione fino all’esaurimento del giacimento).

 

Articolo pubblicato su giornalistinellerba.it

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