Crisi climatica: ReCommon e Greenpeace portano Eni in tribunale
Il 9 maggio ReCommon, Greenpeace e 12 tra cittadine e cittadini, hanno deciso di portare Eni in tribunale. L’azienda è accusata di essere corresponsabile della crisi climatica, al pari di altre che traggono enormi profitti dai combustibili fossili. La notizia, che avrebbe dovuto conquistare le prime pagine dei quotidiani, è però passata in sordina, salvo qualche virtuosa eccezione (vedi Domani, Lifegate, Il Fatto Quotidiano, e Valori). Un fatto che, tra l’altro, spiega (in parte) il 41esimo posto detenuto dall’Italia nella classifica mondiale della libertà di stampa. Secondo lo studio di Reporter sans frontières il mondo dell’informazione dipende sempre più dalle entrate pubblicitarie. Non certo una buona notizia per la qualità delle nostre notizie.
Lo Stato e i piani di Eni
Greenpeace e ReCommon hanno intentato una causa civile non solo nei confronti di Eni ma anche nei confronti del Ministero dell’economia e delle finanze e di Cassa depositi e prestiti che esercitano “un’influenza dominante” sul “cane a sei zampe”, dato che ne possiedono rispettivamente il 4,411% e il 26,213% delle azioni (la maggioranza delle azioni). Eni non è dunque una società per azioni “normale”, il suo bilancio è infatti “sottoposto a verifica da parte della Corte dei Conti che ne relaziona ai Presidenti di Camera e Senato”, si legge nel comunicato diffuso dalle due associazioni. Un’ulteriore elemento che rende la società una controllata dello Stato.
Sulle scelte di Eni pesano dunque anche le responsabilità dei tanti governi italiani in continua mutazione ma d’accordo su un singolo punto: non porre alcun freno alla ricerca sfrenata di idrocarburi. E questo, nonostante la comunità scientifica abbia da tempo chiarito che non c’è più spazio per nuovi idrocarburi, basti pensare che nel quinto report dell’Ipcc pubblicato nel 2014 veniva specificato che per centrare l’obiettivo dell’Accordo di Parigi – limitare l’aumento medio della temperatura globale al di sotto dei 2° centigradi rispetto al periodo preindustriale, facendo il possibile per restare al di sotto di 1.5°C – bisognava tenere sottoterra almeno i due terzi delle riserve conosciute di combustibili fossili a quel tempo. L’attività è invece andata avanti imperterrita, al pari delle emissioni gas serra che continuano a macinare record su record.
Un circolo vizioso che Eni sembra alimentare senza troppi patemi d’animo. L’azienda, che nel 2021 ha emesso circa 456 milioni di tonnellate di CO2 – una quantità di gas climalteranti che supera addirittura quella rilasciata dall’intero sistema Italia nello stesso periodo (407 milioni di tonnellate) -, a inizio anno ha infatti aggiornato la sua strategia pluriennale rivedendo al rialzo la produzione di gas fossile, fonte che rappresenterà entro questo decennio il 60% del suo business totale. In generale, la società prevede di raddoppiare da qui al 2026 i contratti di Gas naturale liquefatto (passando dalle 9 mega tonnellate del 2022 alle 18 mega tonnellate del 2026), e di destinare il 75% del totale degli investimenti ai combustibili fossili. Inoltre, secondo il rapporto “Big Oil Reality Check 2023” di Oil Change International, gli investimenti di Eni in gas e petrolio nel 2022 sono stati 15 volte superiori a quelli nelle rinnovabili e, per il 2023, l’azienda si candida a essere tra le prime al mondo per le attività legate a queste due fonti.
#LaGiustaCausa, Eni in tribunale: cosa chiedono le organizzazioni
La campagna che promuove l’iniziativa legale contro Eni si inserisce tra le “climate litigation”: azioni di contenzioso climatico il cui numero complessivo, a livello globale, è più che raddoppiato dal 2015 a oggi, portando il totale delle cause a oltre duemila. Tra queste, spicca l’azione legale promossa da Friends of the Earth Netherlands insieme a Greenpeace Netherlands, altre organizzazioni e 17.379 singoli co-ricorrenti, che nel maggio 2021 ha portato un tribunale dei Paesi Bassi a imporre alla società petrolifera Shell la riduzione delle proprie emissioni di carbonio poiché “responsabile di aver danneggiato il clima del Pianeta” (la sentenza è stata appellata da Shell).
Su questa scia le due organizzazioni e i cittadini coinvolti “chiederanno al Tribunale di Roma l’accertamento del danno e della violazione dei loro diritti umani alla vita, alla salute e a una vita familiare indisturbata”. Gli attori che hanno portato Eni in tribunale chiedono inoltre “che sia obbligata a rivedere la propria strategia industriale per ridurre le emissioni derivanti dalle sue attività di almeno il 45% entro il 2030 rispetto ai livelli del 2020, come indicato dalla comunità scientifica internazionale per mantenere l’aumento medio della temperatura globale entro 1.5°C”, si legge sul sito di ReCommon. Infine, viene chiesta “la condanna del Ministero dell’Economia e delle Finanze, azionista influente di Eni, ad adottare una politica climatica che guidi la sua partecipazione nella società in linea con l’Accordo di Parigi”.
2 risposte
[…] l’Eni per l’appunto, per parlare di transizione e anche del processo che la vede coinvolta: #LaGiustaCausa mossa da Greenpeace e ReCommon nei confronti del Cane a sei zampe con l’obiettivo di indurre l’azienda a partecipazione […]
[…] da aree già colpite dagli impatti dei cambiamenti climatici – hanno portato Eni in tribunale chiedendo al colosso italiano dei combustibili fossili di “rivedere la propria strategia industriale per ridurre le emissioni derivanti dalle sue […]