Il salto da gigante che serve all’umanità passa per le politiche di redistribuzione
Cinquant’anni anni dopo la pubblicazione del primo rapporto per il Club of Rome “The limits to growth” (“I limiti alla crescita”) che scatenò il dibattito planetario sull’impossibilità di una crescita materiale, quantitativa e illimitata dell’umanità in una Terra dai chiari limiti bio-geofisici, l’ultimo rapporto “Earth for all – A survival guide for humanity” avanza una serie di proposte per compiere quel “salto da gigante” indispensabile per l’intera umanità.
Dell’argomento si è discusso il 17 maggio a Milano, presso l’Acquario civico, durante l’evento “Il salto da gigante. Una Terra per tutti” del Festival dello sviluppo sostenibile, organizzato dal Gruppo di lavoro (Gdl) ASviS sui Goal 6-14-15. Per l’occasione, è stato presentato il policy brief “Il salto da gigante – nuove politiche globali per vincere la sfida del nostro tempo”.
L’evento è stato introdotto e moderato da Gianfranco Bologna, coordinatore del GdL ASviS sui Goal 6-14-15 e full member of Club of Rome, e Anna Luise, Ispra – Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale e coordinatrice del GdL ASviS sui Goal 6-14-15. “Earth for all delinea i modi con cui poter vivere all’interno dei paletti di sostenibilità – ha affermato Bologna -. Fino a ora non abbiamo dato ascolto alla comunità scientifica sui temi ambientali, basti pensare che da quando è nato l’Ipcc nel 1988, ente istituito proprio per allertare sulla situazione climatica, abbiamo immesso nell’atmosfera oltre 1000 miliardi di tonnellate di anidride carbonica, il 41% del totale delle emissioni dal periodo preindustriale”.
“Il rapporto Earth for all ha un elemento fondamentale nella sua struttura, ci dice che non si può fare a meno di coniugare la scienza, che diventa conoscenza, con la politica, e anche i ricercatori in questo devono fare la propria parte. La Terra è un organismo e va considerata tale per trovare le soluzioni in grado di invertire la tendenza di degrado dei nostri ecosistemi”, ha invece commentato in apertura Luise.
Il primo intervento di Antonio Navarra, presidente del centro Euro-mediterraneo per i cambiamenti climatici, ha descritto in che modo la scienza è in grado di determinare il futuro climatico del Pianeta. “L’acqua è l’elemento che tiene insieme il nostro sistema climatico, ma ha una pessima abitudine: si trasforma. Quando lo fa, scambia una quantità minuscola di energia con l’ambiente. Ecco, il clima è il risultato di queste miliardi di interazioni con l’unica vera fonte di energia esterna, e cioè la radiazione solare – ha sottolineato Navarra -. Si tratta di un sistema complicatissimo. Per fortuna conosciamo le equazioni che descrivono il moto dell’atmosfera e dell’oceano da molto tempo”. Equazioni che però la scienza ha potuto risolvere soltanto grazie al progresso tecnologico, “prima infatti era impossibile, ora invece riusciamo a sviluppare un modello climatico, una rappresentazione virtuale, una copia del nostro Pianeta dover poter fare esperimenti”. È in questo modo che oggi si riesce a prevedere cosa succederà in base a un determinato aumento di gas serra in atmosfera, ed è su questa base che si innestano tutti gli studi scientifici sul tema, che poi confluiscono nei rapporti dell’Ipcc.
Dal clima alla perdita di biodiversità, tenendo ben presente che sono due argomenti strettamente connessi. Roberto Danovaro, professore di ecologia e biologia marina all’università politecnica delle Marche, in seguito ha ricordato che “Stiamo determinando un declino della biodiversità senza precedenti. Per farci un’idea, abbiamo alterato il 75% degli ecosistemi terrestri e il 66% degli ecosistemi marini. Oggi il tasso di estinzione delle specie supera da 100 a 1000 volte il tasso di estinzione naturale per via dell’attività antropica. Non esiste alcuna area geografica del Pianeta che non subisca il crollo della biodiversità. In poche parole, quello che mancherà sempre più è la qualità dell’acqua che beviamo, del cibo che mangiamo, dell’aria che respiriamo…”. Gli impatti dell’uomo sul Pianeta sono enormi, basti pensare che ogni anno solo a causa della pesca a strascico distruggiamo un’area dei fondali marini pari a 15 volte l’Italia. Per risolvere i problemi è fondamentale il dialogo tra scienza e politica, ma va detto che oggi ci cibiamo di informazioni sbagliate che però diventano pervasive nell’opinione pubblica. “Il primo assunto sbagliato è ‘la perdita della natura è un prezzo da pagare per il progresso’ – ha detto Danovaro -. Altro assunto errato è pensare che le risorse naturali possano essere compensate da quelle artificiali, e che la tecnologia può risolvere qualsiasi problema. Per legarci al fattore climatico, altra cosa errata è sostenere che in realtà ‘ha fatto sempre caldo’, nonostante la chiarezza dei trend climatici”. Ma non siamo solo di fronte a un problema di temperature: “Pensiamo agli oceani, dove oltre alle temperature registriamo la diminuzione della produzione di pescato e, cosa non secondaria, anche della quantità di ossigeno prodotto di circa il 20%. Possiamo dire che stiamo perdendo anche il capitale di produzione dell’ossigeno sul Pianeta. Abbiamo l’obbligo, quindi, di avviare un’azione incisiva per proteggere la biodiversità e al contempo dobbiamo incentivare anche l’azione di restauro dei nostri ecosistemi”.
Giulia Gregori, head of corporate strategy implementation and engagement di Novamont, ha invece descritto prima dell’approccio dell’azienda ai problemi ambientali e poi del fenomeno del degrado dei suoli. “L’approccio di Novamont è fare di più con meno. Crediamo che la bioeconomia possa dare un importante contributo, poiché ha in sé l’idea che si possa ragionare in modo sistemico, per non rispondere all’emergenza con semplici azioni ‘tampone’ ma con un’idea di futuro”. Soltanto nel 2020 la massa globale prodotta dagli esseri umani ha eguagliato quella naturale, e nel 2021 con 1,1 teratonnellate l’ha superata. La cosa incredibile è che tutto questo è stato realizzato da noi umani, che rappresentiamo lo 0,01% della massa vivente sul Pianeta. “È ovvio che l’attuale modello economico non è più sostenibile. Se guardiamo al suolo, dalla prima rivoluzione agricola a oggi gli esseri umani hanno dimezzato la quantità di biomassa vegetale. Questo ha portato a uno stato di degrado del suolo preoccupante. Parliamo di una risorsa fondamentale per la nostra vita sulla Terra ma non rinnovabile, basti pensare che ci vogliono centinaia di anni per generare un centimetro di suolo superficiale e pochissimi anni per distruggerlo. I dati sui suoli europei sono davvero preoccupanti, il numero di siti potenzialmente contaminati sono 2,8 milioni, mentre il 65% dei suoli agricoli ha un livello di input di nutrienti a rischio eutrofizzazione, mentre il 25% è a rischio desertificazione, soprattutto nel sud Europa. I costi per rimediare a questa situazione superano i 50 miliardi di euro all’anno in Europa”, ha sentenziato Gregori.
La seconda parte dell’evento ha ospitato un tavolo di dibattito su questi temi aperto da Lorenzo Fioramonti, membro 21st century transformational economy commission di Earth for all. “Ci sono una serie di azioni che vanno prese e le principali riguardano la modifica del nostro modello di produzione e consumi, completamente disallineato con le caratteristiche del benessere ecologico e del nostro benessere – ha affermato Fioramonti -. Le proposte presenti all’interno di Earth for all sono tutte legate al ripensamento del concetto di crescita economica, ormai vetusto e anacronistico. La crescita economica va ripensata, dobbiamo iniziare a pensare in termini veramente rigenerativi. Lo si può fare soprattutto a livello macroeconomico, questo significa cominciare a utilizzare dei sistemi di misurazione del successo economico di una nazione che siano integrati. Non possiamo pensare di continuare a considerare la crescita economica solamente come l’aumento dei consumi e della produzione tenendo fuori i danni che così generiamo”. In sostanza, il Pil è uno strumento inadeguato, dato che non considera i danni generati che spesso sono maggiori ai profitti. Alla considerazione va poi aggiunto il fatto che i profitti “sono di pochi ma i danni sono di tutti”. Per Fioramonti “a livello microeconomico vanno fatte delle regole per indurre le imprese a essere più virtuose. Molte aziende, come quelle benefit, con la propria attività già oggi incidono positivi sui fattori ambientali e sociali ma questo sfugge alla misurazione. A queste aziende non viene riconosciuto il valore aggiunto creato. In futuro vorrei che tutte le società fossero benefit e vorrei che tutti i ragazzi venissero formati in modo diverso: non possiamo continuare a insegnarli, applicando vecchi modelli, che l’economia è separata dalla natura e della società. I migliori amici dell’economia oggi sono quelli che vogliono riformarla”.
Un discorso, quello sui giovani, ripreso nell’intervento successivo di Patty L’Abate, vicepresidente commissione Ambiente, Camera dei deputati, del Movimento 5 stelle: “Ai nostri giovani dobbiamo insegnarli un’economia differente. Le difficoltà tra politica e scienza ci sono, è come se viaggiassero su due binari paralleli, e non saprei dire quando si incontreranno”. Ma se continuiamo così sarà lo stesso modello economico ad andare in crisi, dove per esempio prenderà le risorse da trasformare? “I concetti della conversione ecologica li porto tutti i giorni in politica ma continuo a sentire cose del tipo ‘dobbiamo pensare all’economia’ senza comprendere che per farlo va combattuto, per esempio, l’inquinamento – ha continuato L’Abate -. In questo momento in Commissione ambiente stiamo parlando degli imballaggi, stimolati dalla direttiva europea, ma le imprese hanno paura di modificare la propria linea produttiva. Io capisco questa paura, per far sì che questa trasformazione avvenga noi dobbiamo accompagnarla, dando per esempio incentivi per la trasformazione e supporto tecnologico. Vanno inoltre formati in questo senso i nostri ragazzi, per sviluppare anche delle competenze per poter effettuare la transizione ecologica. Abbiamo anche un governo a cui dobbiamo far spesso capire che frenare le iniziative europee sul tema, un domani, potrebbe creare un problema a tutta la filiera delle imprese italiane, perdendo così competitività”.
Annalisa Corrado, responsabile conversione ecologica, clima, green economy e Agenda 2030 del Partito democratico, ha poi lanciato un appello sul mondo dell’informazione: “C’è ancora chi si ostina a chiamare maltempo quello che è invece generato dalla crisi climatica. Fondamentale sarà influire su un dibattito mediatico che non può essere così appiattito, non possiamo più tollerare posizioni antiscientifiche, non esiste alcuna par condicio tra chi dice che la crisi climatica è reale e chi sostiene il contrario. Questa è una battaglia su cui dovremmo tutti unirci”. In generale, siamo poco preparati ad affrontare la crisi climatica, fenomeno su cui non stiamo facendo abbastanza, sia dal punto di vista della mitigazione sia dell’adattamento. “Abbiamo ragionato negli anni con la logica dei piccoli passi invece che del ‘salto da gigante’, una logica che non andava bene nemmeno 50 anni fa, figurarsi ora – ha continuato Corrado -. L’enorme complessità della sfida che abbiamo davanti è stata usata come scusa per non fare nulla, per lasciare tutto com’è. Durante la crisi del Covid-19 tutti parlavano di ricostruire una normalità priva di problemi generati dal modo in cui trattiamo gli ecosistemi. Ora possiamo dire che abbiamo sprecato questa opportunità. Siamo per esempio ancora più ‘fossili’ di prima, non stiamo facendo abbastanza per trasformare il nostro sistema energetico rendendolo indipendente. Dal tema energetico dipendono poi altre crisi, come quella bellica. Nel libro ‘Nessi e connessi’ ho avuto modo di scrivere, parafrasando il giudice Falcone, che per capire la guerra bisogna seguire il petrolio, il gas e il carbone. Basta sovrapporre le mappe delle risorse petrolifere del Golfo persico con la mappa dei conflitti per avere un chiaro esempio. Se avessimo fatto la transizione ecologica prima non saremmo in questa condizione oggi, anche in termini di disuguaglianze. Ancora una volta siamo di fronte a una tempesta perfetta da cui non riusciamo a uscire, e mettere in atto strategie emergenziali che non guardano al lungo termine non è la soluzione”.
Sul tema delle disuguaglianze citato da Corrado si è poi soffermato Francesco Petrelli, responsabile relazioni istituzionali di Oxfam Italia che, partendo dal definire “Earth for all uno strumento d’iniziativa che tutti dovrebbero utilizzare” ha sottolineato l’importanza di creare “un’agenda politica per l’equità, una condizione necessaria, anche se non esaustiva, per il passo da gigante. Il consenso sulla transizione giusta lo dobbiamo garantire costruendo condizioni di parità. Siamo in una fase in cui negli ultimi 25 anni assistiamo a due fenomeni: la concentrazione delle disuguaglianze e la concentrazione della povertà estrema. Negli ultimi 10 anni l’1% del mondo ha accumulato ricchezza 74 volte pari a quella del 50% più povero del mondo. È questo il nodo: se non riusciamo a scioglierlo non riusciremo a compiere la trasformazione eco-sociale. Secondo la Banca mondiale il Goal 1 dell’Agenda 2030 – lotta alla povertà – è già fallito, nel 2020 abbiamo avuto 70 milioni di persone in più che sono cadute nella fascia della povertà estrema, quella dove si vive con meno di 2,15 dollari al giorno. In nove paesi su dieci l’indice di sviluppo umano è in regresso e in 96 Paesi presi in esame un miliardo e 700 milioni di persone hanno visto l’inflazione superare la crescita dei salari. Inoltre, nel periodo 2023-2037 nei tre quarti dei 70 Paesi analizzati da Oxfam, i governi hanno pianificato una riduzione della spesa pubblica nell’ordine di 8 mila miliardi di dollari. Rispetto alle leve su cui i passi da gigante si dovrebbero muovere, in questi anni di pandemia su 161 Paesi analizzati, 143 non hanno mai pensato di fare prelievi fiscali sui super profitti. Secondo me dobbiamo rimettere insieme i pezzi, dobbiamo riuscire a costruire una rete con tanti attori per produrre una massa critica capace di fare cambiare rapidamente le cose”.
Sugli argomenti trattati, è poi intervenuto Edoardo Rixi, viceministro delle Infrastrutture e dei trasporti: “Storicamente abbiamo visto che lo sviluppo industriale portava danni all’ambiente, una dimensione più accentuata nel sud Europa. Ci troviamo di fronte a impatti chiari della crisi climatica, che per esempio ha inciso sulle precipitazioni nevose sulle Alpi. Ciò fa presumere che ci sarà una diminuzione importante sulle portate dei fiumi, e questo ha una rilevanza anche sul piano trasportistico. Siamo in un momento in cui si concentrano fenomeni estremi, ci sono due strumenti da tenere in considerazione: portare avanti il tema del dissesto idrogeologico e della resilienza delle infrastrutture, dare risposte immediate ai cittadini con, per esempio, novi sistemi di allerta. Sono temi da portare avanti giorno dopo giorno, per far comprendere anche che la risorsa ambientale ha un carattere economico. Non siamo più abituati per esempio alla cura della montagna e abbiamo alcune regole ambientali ereditate dal passato che fanno fatica oggi a rispondere al cambiamento climatico. Abbiamo una situazione geografica del Paese più complicata di altri nazioni europee, dobbiamo salvaguardare l’ambiente in quanto investimento. Sembra facile dirlo ma va distinto l’investimento di salvaguardia da quello di sfruttamento e, questo, non sempre avviene”.
Infine, per chiudere questa “giornata di lavori” è intervenuto Pierluigi Stefanini, presidente dell’ASviS, rilanciando alcune proposte. “Esprimiamo piena solidarietà alle vittime e ai drammi dell’Emilia Romagna. Abbiamo bisogno di uscire dalla logica emergenziale e capire che va affrontata e gestita la crisi climatica in modo sistemico. L’Italia non ha ancora pienamente adottato la Strategia nazionale sulla biodiversità, mentre il Piano nazionale di adattamento al cambiamento climatico è sprovvisto di risorse economiche e il Piano nazionale integrato clima energia deve essere ancora aggiornato agli obiettivi europei”. Per Stefanini il passaggio da un’economia della crescita a un’economia del benessere è un’affermazione di grande valore strategico e culturale. E, pur trattandosi di un processo complesso da portare avanti, che implica nuove modalità e una lunga programmazione, non possiamo farne a meno. Per questo motivo, “dobbiamo passare a un approccio redistributivo delle risorse, per combattere anche gli effetti indesiderati del capitalismo, e interrogarci sui sistemi di accumulazione di ricchezza. Se vogliamo davvero immaginare una diversa economia, dobbiamo moltiplicare le risorse finanziarie per la transizione perché, se pensiamo che basti semplicemente il Pnrr, commettiamo un grande errore”, ha concluso Stefanini.