Gli investimenti delle compagnie mostrano che il futuro è ancora affidato ai fossili

Nel corso della Cop 26 è stato diffuso da Urgewald e 20 Ong (tra cui figurano Greenpeace e Recommon) uno studio che analizza i programmi di 887 compagnie fossili. Queste società, che coprono quasi il 95% della produzione globale di petrolio e gas non sembrano voler abbandonare il proprio business, anzi, rilanciano.

Secondo il database Gogel (Global oil & gas exit list), circa l’80% delle compagnie si stanno preparando a estrarre nuove riserve di petrolio e gas nei prossimi mesi. Infatti negli ultimi tre anni hanno investito 168 miliardi di dollari nell’attività di esplorazione (più della metà è stata speso da sole 16 società). Le cinque società con la più alta spesa annua per l’esplorazione di petrolio e gas (basata sulla media degli ultimi tre anni) sono Petrochina (6 miliardi di dollari), China national offshore oil corporation (2,8 miliardi), Shell (2,4 miliardi), Sinopec (2,3 miliardi) e Pemex (1,9 miliardi).

“I nostri numeri mostrano che l’industria nel suo insieme è su un percorso di espansione spericolato”, ha dichiarato Nils Bartsch, a capo della ricerca, “Non dobbiamo farci ingannare dalle promesse delle compagnie petrolifere e del gas per il 2050, il decennio decisivo per l’azione è ora”.

“Con l’aiuto di Gogel vogliamo motivare le istituzioni finanziarie pubbliche e private a smettere di consentire l’espansione del settore e iniziare a orientarsi verso un’uscita da petrolio e gas”, ha spiegato Katrin Ganswindt, senior finance campaigner di Urgewald, “Dietro ogni azienda che sta sviluppando nuovi asset fossili ci sono banche, investitori e assicuratori senza i quali questi piani non potrebbero essere realizzati. Persino l’Iea (Agenzia internazionale dell’energia) avverte che tutte le esplorazioni di petrolio e gas devono cessare ora. Eppure nessuna delle grandi banche globali coinvolte nella ‘Glasgow financial alliance for net zero’ (una coalizione di banche e altri operatori finanziari nata durante Cop 26) è disposta a tracciare una linea rossa per i clienti che stanno spendendo milioni, o addirittura miliardi di dollari in attività fossili”.

Nella lista Gogel figura anche l’Eni che intende espandere nei prossimi anni la propria produzione per circa 1.893 milioni di barili in Paesi come Australia, Egitto, Libia, Mozambico Nigeria, Norvegia e Stati Uniti e la stessa Italia. Se guardiamo al 2020, invece, l’azienda italiana figura al 19esimo posto tra i maggiori produttori di petrolio e gas nel mondo (al primo posto troviamo Saudi aramco, al secondo Gazprom e al terzo Nioc).

L’analisi ha inoltre dimostrato come 506 produttori abbiano già pianificato l’aggiunta di 190 miliardi di barili di petrolio equivalente (bboe) ai loro portafogli di produzione entro i prossimi sette anni. Nello specifico, 14 aziende sono responsabili di oltre la metà di questa enorme espansione; di queste le prime cinque sono Qatar energy (20 bboe), Gazprom (17 bboe), Saudi aramco (15 bboe), Exxonmobil (7 bboe) e Petrobras (7 bboe).

Discorso importante e “spaventoso” è anche quello legate a nuove infrastrutture per i combustibili fossili, come gasdotti e centrali elettriche a gas. Solo il gasdotto “Nord stream 2” di Gazprom, lungo 1.230 km è costato 9,5 miliardi di euro e ha una durata prevista (ciclo di vita) di 50 anni. In questo momento ci sono nel mondo in fase di sviluppo 211.849 km di gasdotti e oleodotti che, se messi uno in fila all’altro, supererebbero metà della distanza Terra-Luna.

“I nuovi progetti di infrastrutture per i combustibili fossili rappresentano un grave pericolo per gli obiettivi di Parigi poiché ci bloccano in un percorso ad alte emissioni per i decenni a venire. I finanzieri devono dunque escludere le aziende che hanno piani per nuove infrastrutture fossili, che rappresentano una ricetta infallibile per il crollo climatico”, ha infine affermato Ganswindt.

 

Articolo pubblicato su futuranetwork.eu

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