ETS: quell’oscuro meccanismo che mette a rischio Parigi
Tiene banco al Parlamento europeo la riforma dell’ETS (Emission Trading Scheme), messo in campo dall’UE per abbassare il livello comunitario di emissioni gas serra. Istituito in seguito alla ratifica del Protocolo di Kyoto, è oggi uno dei maggiori strumenti utilizzati dall’Europa per conseguire gli impegni presi a Parigi. La sua attuazione coinvolge centrali elettriche e grandi impianti industriali (settori definiti “energivori“) e fu creato per stimolare la transizione delle aziende verso un’economia low carbon. L’idea era quella di creare un mercato del carbonio in cui venissero scambiate quote di emissione. Negli anni parte delle quote sono state fornite gratis (soprattutto agli impianti manufatturieri) e parte è andata all’asta. A queste quote viene attribuito un prezzo (attraverso la semplice regola della domanda e dell’offerta), quello della tonnellata di CO2 che ruota intorno ai 5€. In pratica i 5€ sono il costo che le aziende devono pagare per ogni tonnellata di CO2 emessa in più rispetto a quanto stabilito. Ma questo prezzo persegue l’obiettivo dell’ETS?
Strettamente legata alla faccenda prezzo c’è quella “surplus”. Ogni anno agli impianti viene fornito un tetto di quote. Se si sfora il tetto occorre pagare. Se, invece, a fine anno l’impianto avrà emesso meno allora maturerà una specie di “bonus”. Bonus che gli consentirà di mettere da parte le quote risparmiate per poterne usufruirne in futuro: quando supererà il tetto di emissioni consentito.
Il 28 febbraio l’Italia, nella riunione dei ministri dell’Ambiente europei, ha votato contro il nuovo impianto proposto dal Parlamento. Ma siamo ancora ai dettagli e i negoziati vanno avanti (e a rilento), non c’è ancora nulla di deciso. L’unica cosa sicura è che la struttura messa in piedi è di difficile comprensione e per nulla semplice da illustrare. Andiamo con ordine.
I problemi dell’ETS
Come l’Europa traduce in misure gli accordi internazionali sul clima come quello di Parigi?
Con il Pacchetto Clima-Energia e il suo obiettivo (aggiornato) al 2030: -40% di emissioni rispetto al 1990 con un contributo del 27% di energia proveniente da fonti rinnovabili e una riduzione dei consumi energetici (efficienza energetica) del 27%.
Quali sono le misure che mette in campo per indurre le nazioni ad abbassare le proprie emissioni gas serra del 40%?
L’Effort Sharing (si interessa del 55% delle emissioni provenienti dall’UE e pone come obiettivo la riduzione del 30% dei gas serra immessi in atmosfera al 2030 rispetto ai livelli del 2005; la normativa coinvolge il settore del residenziale, dell’agricolo, dei rifiuti e dei trasporti; sarà tema di approfondimento in uno dei nostri prossimi servizi) e il sistema ETS, argomento di dibattito durante “Il ruolo dell’Italia nelle politiche climatiche dell’UE“, convegno organizzato da Legambiente, Climate Action Network Europe e Italian Climate Network. Del ruolo di questi strumenti e dei principali aspetti negativi, ne abbiamo discusso con Veronica Caciagli (video).
L’ETS copre il 45% delle emissioni UE provenienti dai cosiddetti settori “energivori“. La direttiva stabilisce che dal gennaio 2005 le grosse industrie non possano funzionare senza un’autorizzazione ad emettere gas serra. Ogni industria può emettere solo una certa quantità di CO2 annua, superato il limite deve acquistare quote dal mercato (meccanismo cap and trade: fisso un tetto che, se superato, obbliga ad acquistare permessi ad inquinare). L’ETS coinvolge 11000 impianti a livello europeo , 1300 in Italia, l’obiettivo è una riduzione del 43% delle emissioni al 2030 rispetto ai livelli del 2005.
Come detto, sono 2 i vizi che tendono a far bollare l’ETS come sistema poco efficace per la lotta climatica.
Primo: prezzo della CO2 troppo basso. L’ETS si basa su un meccanismo di scambio quote. Ogni impianto soggetto ad ETS deve monitorare annualmente le proprie emissioni e compensarle. Con questo mercato della CO2 gli operatori hanno 2 possibilità di scelta: o acquistare quote sul mercato o investire in tecnologie low carbon per ridurre le emissioni. Negli ultimi anni il prezzo della CO2 è ruotato intorno alla cifra dei 5€ a tonnellata (addirittura negli ultimi mesi è sceso sotto la soglia dei 4€). Il prezzo della CO2, però, dovrebbe servire sia per incentivare le imprese a migliorare le proprie performance ambientali che a ripagare la collettività dai danni subiti dalle emissioni e, se pensiamo che Stern nel suo ormai celebre report del 2006 (Stern Review: The Economics of Climate Change) attribuiva alla CO2 un costo sociale pari a 85 $ a tonnellata, si comprende meglio quanto il prezzo dell’ETS sia lontano dalla realtà. E di questa opinione sembra essere anche Mariagrazia Midulla del WWF (video).
Senza considerare che un prezzo così basso tende a svantaggiare proprio quelle imprese che investono maggiormente nella green economy.
Secondo: il problema “surplus”. L’attuale fase (la terza) del sistema ETS finisce nel 2020. È in corso la discussione sulla riforma che interessa il periodo che parte dal 1° gennaio 2020 ed arriva al 31 dicembre 2030. La direttiva prevede che le imprese che stiano al disotto del tetto previsto, possano maturare un credito (il bonus di cui si parlava a inizio articolo) da poter utilizzare. I crediti nel corso degli anni si sono accumulati a tal punto che ci sono 3 miliardi di tonnellate di CO2 che rischiano di diventare “bonus” da poter utilizzare nella fase 2020-2030 (proprio perché lo prevede la normativa). Perché questo? Perché, semplicemente, sono state concesse troppe quote di emissioni agli impianti: i tetti erano troppo alti.
Portarsi tutti questi bonus accumulati nella fase 3 non farebbe altro che rendere ancora più inefficiente il meccanismo. Infatti, gli operatori potrebbero tranquillamente decidere di rimandare a domani ciò che devono fare oggi: possono usare i bonus e quindi emettere quanto vogliono, soprattutto nei primi anni post 2020. Su questo dovrebbe, quindi, intervenire al più presto la Commissione europea incaricata della rifoma.
Ma se fino ad ora avete pensato che la faccenda sia piuttosto complicata, di difficile comprensione e poco trasparente, sappiate che le cose stanno addirittura per complicarsi. Sì, perché c’è un altro punto che si lega alla faccenda surplus. In genere, per definire un arrivo c’è bisogno anche di stabilire una partenza (un target è fatto da un obiettivo da raggiungere all’anno X rispetto al periodo Y). Quindi, a che livello di emissioni deve far riferimento la strategia che arriva al 2030, insomma: qual è il volume da cui iniziare a ridurre le emissioni, da dove si deve partire? Potrebbe essere piuttosto scontato pensare che si parta da dove finisce la fase 3, e quindi dal livello di emissioni del 31 dicembre 2019. Invece l’Europa sta pensando di partire dalla media delle emissioni di ogni singolo Paese nel periodo 2016-2018. E qui sorge l’ennesimo dubbio. Ma in questo modo non si incentiva a fare poco o nulla i Paesi? Soprattutto nei primi anni post 2020 dove si ritroveranno a gestire il margine accumulato nel periodo che va dal 2016-2018 al 2020 (senza dimenticare anche l’enorme surplus citato in precedenza)? Ne abbiamo parlato con Veronica Aneris di Transport & Environment e Stefano Caserini (docente del Politecnico di Milano che si occupa di politiche di mitigazione) che ha sottolineato anche il bisogno di avere target di riduzione più ambiziosi (video).
A margine dell’evento abbiamo chiesto l’opinione anche di Gianni Girotto del Movimento 5 Stelle e di Andrea Boraschi di Greenpeace. Queste le loro dure e ferme posizioni (video).
Articolo pubblicato su giornalistinellerba.it