Il piano di adattamento ai cambiamenti climatici: cosa serve all’Italia

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L’Italia nel 2023 ha registrato ben 378 eventi estremi che sono costati la vita a 31 persone. Secondo il rapporto Cittàclima di Legambiente sono in aumento alluvioni, frane, mareggiate, grandinate e temperature. Le città più colpite sono state Roma, Milano, Palermo e Prato, ma nella nostra memoria restano impressi i casi più drammatici: le alluvioni in Emilia-Romagna di maggio, che hanno coinvolto 44 comuni nelle province di Ravenna, Forlì-Cesena, Rimini e Bologna, con danni per oltre 8,8 miliardi di euro; quelli nelle Marche nello stesso periodo e al Nord della Toscana di inizio novembre.

In generale alluvioni ed esondazioni fluviali sono cresciute del 170% rispetto al 2022, seguite dal numero dei casi di temperature record in ambito urbano (più 150%) e dalle frane a seguito di piogge intense (più 64%).

Per l’Ispra quasi il 94% dei comuni italiani è a rischio frane, alluvioni ed erosione costiera, numeri che rendono il nostro Paese il più pericoloso d’Europa, almeno sotto al profilo del dissesto idrogeologico. L’atra faccia della medaglia si chiama siccità, un fenomeno a cui eravamo abituati ad assistere nei mesi più caldi dell’anno ma che, grazie alla crisi climatica, si sta allargando a macchia d’olio colpendo anche in inverno. È il caso della Sicilia che, proprio in questi giorni, affronta una delle più gravi siccità della sua storia. Fino a ora l’acqua è stata razionata in circa 40 comuni tra Agrigento, Caltanissetta e Palermo.

Altro dato allarmante che determina un forte rischio per la salute delle persone è quello relativo alle ondate di calore che diventano sempre più lunghe. Da una durata media di 3-4 giorni adesso il fenomeno si prolunga per 10 giorni e, in alcuni casi, persino per un mese.

Siamo di fronte a un disastro annunciato, capace di mettere a rischio la dimensione economica, sociale e ambientale dell’intero sistema-Italia. La novità è che dopo diversi anni di attesa il governo ha finalmente approvato il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici (Pnacc), strumento di attuazione dell’omonima Strategia nazionale del 2015 che analizzava lo stato delle conoscenze scientifiche sul tema.

La finalità del Piano è contenere la vulnerabilità dei sistemi naturali, sociali ed economici agli impatti della crisi climatica e aumentarne la resilienza. Attualmente il Pnacc è sottoposto a procedura di Vas (Valutazione ambientale strategica), dalla quale però non si attendono modifiche rilevanti.

La struttura del Pnacc è articolata in cinque aree: abbiamo il quadro giuridico di riferimento, il quadro climatico nazionale, gli impatti dei cambiamenti climatici e le vulnerabilità settoriali, le misure e le azioni di adattamento, e la governance.

Da un punto di vista scientifico il Pnacc si presenta solido e articolato, spiega bene cosa succederà all’Italia nei prossimi anni. Per esempio, secondo lo scenario del business as usual, entro il 2065 la temperatura superficiale marina varierà da circa 1.9°C nel mar Tirreno a circa 2.3°C nell’Adriatico, mentre le variazioni del livello del mare saranno pari a circa 16 cm nell’Adriatico e nel Tirreno arrivando fino ai 19 cm del Mediterraneo occidentale. Numeri che mettono a rischio gli 8mila chilometri costieri del nostro Paese. I ghiacciai italiani, preziosa riserva di acqua dolce, hanno già perso circa il 40% del loro volume e si apprestano a ritirarsi sempre di più. Per quanto riguarda le precipitazioni si prospetta una diminuzione complessiva annua, mentre cresce il pericolo di frane e alluvioni a seguito degli eventi estremi. Da aggiungere anche un incremento del numero di episodi di siccità, in particolare nel Sud Italia e nelle isole.

Per via della crisi climatica bisogna inoltre aspettarsi una riduzione delle produzioni agricole, soprattutto nelle aree del Sud Italia, con costi fino a 30 miliardi di euro (in termini di produzione mancata). Un danno che si riverserà sulle produzioni pregiate del cosiddetto “made in Italy”.

Questa triste lista, ancora parecchio lunga, dipende anche dal fatto che viviamo in un Paese definito dagli esperti un “hot spot” climatico, cioè una zona in cui le temperature crescono di più rispetto ad altre parti del mondo e dell’Europa, che tradotto significa che subiamo e subiremo danni maggiori.

Alla luce di questo complicato contesto climatico, il Pnacc individua una serie di azioni da mettere in campo. Sono 361 le misure di carattere regionale e nazionale che spaziano dalla gestione delle risorse idriche alla tutela del comparto agroalimentare. La maggior parte delle azioni individuate, circa 250, sono di tipo “soft” e includono misure di policy, giuridiche, sociali, gestionali e finanziarie che possono modificare il comportamento e gli stili di vita. Poi abbiamo quelle verdi, che prevedono azioni basate sulla natura, e quelle infrastrutturali/tecnologiche utili a rendere gli edifici, le reti e i territori più resilienti ai cambiamenti climatici.

Sulla governance viene invece prevista l’istituzione di un Osservatorio nazionale composto dai rappresentanti delle Regioni e degli enti locali. L’auspicio è che questo organo di controllo venga creato dal Mase entro il mese di febbraio al fine di individuare con tempestività priorità territoriali e settoriali. Inoltre, sarà creato un Forum permanente con il compito di promuovere l’informazione e la formazione sul tema.

Altro elemento su cui bisognerebbe intervenire il prima possibile chiama in causa la gestione finanziaria. Un grosso limite del Pnacc è proprio quello di non beneficiare di alcuna specifica risorsa finanziaria, una scelta che complica l’attuazione del documento strategico del Mase. Ci sono però una serie di finanziamenti già in atto su cui il governo dovrebbe avviare un’analisi basata sul criterio di coerenza: tutti gli investimenti, quelli per esempio del Pnrr o quelli finanziati da altri strumenti come i fondi europei e nazionali per la coesione, devono concorrere a definire l’attuazione del Pnacc. In sostanza, l’attività di adattamento deve diventare prioritaria per non sprecare le risorse che abbiamo a disposizione e che difficilmente avremo in futuro. Per questa ragione l’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (ASviS) consiglia di iniziare da subito l’analisi di “coerenza”, in modo da avere risultati chiari e in tempo utile alla preparazione del prossimo Documento di economia e finanza, con eventuali correzioni da riversare poi nella Legge di bilancio per il 2025.

Nelle 10 raccomandazioni sul Pnacc, stilate sempre dall’Alleanza, si legge inoltre che Governo e Parlamento devono concordare una gerarchia di queste priorità, ponendo particolare attenzione alle misure di delocalizzazione di insediamenti civili e industriali.

La tutela e la gestione degli ecosistemi messi sotto-stress dal riscaldamento globale, al punto tale da inficiare la qualità e la quantità dei servizi offerti dalla natura, è poi un altro punto su cui occorre soffermarsi. Non c’è infatti adattamento senza soluzioni nature-based basate per esempio sulla rigenerazione delle aree urbane, delle coste e dei percorsi dei fiumi e torrenti. Soluzioni, queste, che andrebbero implementate grazie anche al contributo delle diverse Autorità di bacino sparse sul territorio.

C’è poi un filone climatico spesso sottaciuto ma che risulta parecchio rilevante: quello sulle disuguaglianze. Sebbene sia urgente applicare misure di redistribuzione della ricchezza in un Paese dove l’1% più ricco detiene 84 volte la ricchezza del 20% più povero, le disparità dipendono anche dai diversi aspetti di carattere ambientale. Nell’analisi del rischio dei cambiamenti climatici in Italia, pubblicata nel 2019, il Centro euro-mediterraneo sui cambiamenti climatici avvertiva infatti che “il Sud Italia evidenzia un numero considerevole di comuni con bassi livelli di resilienza ai disastri”. Non si tratta solo di una maggiore vulnerabilità ambientale ma di una prevedibile carenza di capacità di risposta istituzionale, sociale ed economica agli effetti dei cambiamenti climatici che, se non corretta con adeguate misure, rischia di allargare la forbice delle disuguaglianze sociali del Paese.

Non meno preoccupanti sono gli effetti dei cambiamenti climatici sulla salute, basti pensare che l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) stima che tra il 2030 e il 2050 nel mondo ci potrebbero essere 250mila morti in più ogni anno per malaria, diarrea, ondate di calore e malnutrizione a causa dei cambiamenti climatici, con costi connessi alla salute che potrebbero essere pari a due-quattro miliardi di dollari all’anno entro il 2030.

Ma, è bene ricordarlo, l’attività di adattamento ha dei limiti, e più crescono le temperature più le cose si complicano. Per l’Ipcc “nei prossimi anni almeno un miliardo di persone è a rischio inondazioni. Se le temperature dovessero aumentare ancora, cosa più che probabile visto che continuano a crescere i gas serra in atmosfera, già intorno a un aumento di 1.7°C-1.8°C (temperatura media globale rispetto al periodo preindustriale) quasi metà della popolazione globale (3,6 miliardi di persone) sarà esposta a condizioni potenzialmente letali. Stesso discorso per le specie animali e vegetali: a questi livelli di temperatura il 14% delle specie è ad altissimo rischio di estinzione”.

Ecco perché è ancora più urgente agire subito, per evitare di innescare una serie di punti di non ritorno che non lascerebbero più spazio all’azione. Ed è per questo che l’Italia deve dotarsi di una Legge sul clima, come fatto da altri grandi Paesi europei, delineando obiettivi, governance, e coinvolgendo attivamente soggetti economici e sociali nella definizione delle politiche climatiche. Una legge che, tra l’altro, deve fare da cornice alle attività di adattamento ma anche a quelle di mitigazione, dato che il successo dell’una dipende dall’altra.

Per quanto riguarda il taglio delle emissioni climalteranti, l’Italia deve aggiornare il Piano nazionale integrato per l’energia e il clima (Pniec) da inviare alla Commissione europea entro giugno. L’ultima bozza diffusa dal Mase per la consultazione con la società civile rivela diverse criticità. Gli obiettivi sulle rinnovabili sono per esempio inferiori rispetto a quelli definiti su scala europea e internazionale e non viene specificato il ruolo delle comunità energetiche nella transizione.

Ma, come è chiaro, la partita dei cambiamenti climatici si gioca anche su scala globale. I risultati delle prossime elezioni americane ed europee rischiano di rallentare ulteriormente l’azione climatica. Per mettere al sicuro l’impianto del Green deal ci sarà bisogno di confronto, di dibattiti, di lotta alla disinformazione e al greenwashing. Con un 2023 che ci ha messo di fronte alla cruda realtà dei fatti, facendo segnare il record dell’anno più caldo mai registrato con una media che sfiora la soglia di sicurezza di 1.5°C, non sono più ammessi passi falsi in ambito climatico.

 

Articolo pubblicato su asvis.it
Copyrights copertina: Milos Skakal (2023)

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